17 marzo 1918. Ore 22.30. Al Largo di Golfo Aranci, Sardegna. Cielo coperto, vento da est nord est, scarsa luce lunare (tramonterà alle ore 1), mare lungo e mosso, freddo intenso.
Il posto radio costiero di Capo Figari, nei pressi di Golfo Aranci, riceve da Radio Caprera: ” Sentiti colpi cannoni molto lontani”. Mezz’ora prima Nave Mafalda (mercantile armato, 144 t.s.l, velocità 10,5 nodi) aveva laconicamente comunicato che lasciava il servizio di scorta al postale Tripoli per lo stato del mare. Un messaggio poco comprensibile e che lasciava molti dubbi. L’ufficiale di turno a Radio Caprera chiama, con il nominativo telegrafico S.W.J.D., il traghetto postale Tripoli ma non riceve alcuna risposta. Alle 22.49 il Mafalda risponde in telegrafia: ” Sentiti tuoni in lontananza. Rientriamo Golfo Aranci”.
E’ una mezza verità. I colpi si erano sentiti. Il cannoniere Giovanni Cirroni, in servizio al pezzo di poppa del Mafalda, aveva addirittura visto due o tre vampate.
Fa avvisare di questo il comandate Galazzetti. Il sottocapo di guardia in plancia Lorenzo Esposito avendo avuto conferma dal radio telegrafista della mancata risposta del traghetto mette in funzione la sirena dell’allarme. Il comandate giudica che le detonazioni fossero dovute al temporale, rimane in cabina, e ordina che si mantenga la rotta verso terra. Diretto verso Golfo Aranci.
Il messaggio delle 22.30 e la mancata risposta telegrafica del postale fanno temere il peggio ai Comandi costieri. Non sanno ancora cosa sia accaduto. In effetti il Tripoli era stato colpito ripetutamente dai siluri di un sommergibile tedesco in agguato nell’area. Immobile da ore a quota periscopica, sballottato da onde lunghe, in attesa della sua preda. All’epoca non si seppe quale fosse l’U-boat che mandò fondo il Tripoli, neppure ne erano a conoscenza i comandi marittimi militari italiani e si pensava che una spia avesse operato dalla costa dando segnali convenuti per il mortale incontro.
Dall’inizio del conflitto – l’Italia si era schierata facendo un dietrofront repentino con Inghilterra e Francia – iniziato il 28 luglio 1914 – i sommergibili tedeschi che operavano nel Tirreno non si erano mai presentati nella acque tra Continente e Sardegna ma pattugliavano facendo enormi danni tra Sardegna e Sicilia e lungo la rotta che da Gibilterra dirige verso Suez.
Eppure il Tripoli era già stato attaccato un prima volta il 13 ottobre 1917 a 6 miglia da Tavolara. Il primo siluro passò sotto la chiglia, il secondo a lato. Poi dall’U-boat usarono il cannone di coperta colpendo la fiancata del piroscafo che rispose con 18 cannonate in rapida sequenza facendo fuggire l’assalitore.
L’opinione pubblica dell’isola era convinta, così come i responsabili militari che le acque dove vi erano solo un traffico di traghetti fosse ben poco redditizia, ai fine della guerra, per i tedeschi. I postali che lasciavano Civitavecchia e Golfo Aranci disponevano di una modesta scorta e fino al fatidico naufragio, navigavano di notte benché trasportassero grandi numeri di militari di residenza sarda, che andavano in congedo o negli ospedali.
Il Tripoli avrebbe dovuto salpare alle 19 se avesse dovuto rispettare l’orario. Di solito visto che era l’unico mezzo di trasporto verso il continente avrebbe atteso ben oltre quell’orario per l’arrivo del treno da Cagliari carico di militari che dovevano rientrare ai propri reparti. Quella sera il treno aveva un ulteriore ritardo e il comandante diede l’ordine di mollare gli ormeggi alle 20.
A bordo 11 civili, 182 militari della Brigata Sassari, 52 militari della Marina,17 uomini di equipaggio. Così sembra ma questo numero potrebbe essere differente perchè i militari arrivavano alla spicciolata senza controllo e nessuno si curava di verificare il loro imbarco. Secondo le stime il postale era al massimo della propria capacità di carico.
Poco più di due ore e mezza dopo il Tripoli a luci spente si trova davanti l’U-boat tedesco nascosto sotto le onde. Naviga lentamente come dalle direttive imposte sul risparmio di carbone. Il Mafalda lo aveva già lasciato e si trovava a circa 3 quattro miglia di poppa. L’intero bastimento fu scosso da una violenta esplosione, perse la sua spinta, quando l’abbrivo terminò si fermò mezzo piegato sull’acqua. Il sistema elettrico della nave era saltato, la radio fuori uso. Malgrado la confusione che si era immediatamente generata gli artiglieri raggiunsero il pezzo montato a prua e riuscirono a sparare sette colpi in rapida successione verso il sottomarino che stava scomparendo.
Sulle prime sembrò fosse stato colpito per il suo modo ondulante di procedere poi si vide scomparire del tutto. Oggi sappiamo che non fu mai colpito anzi si stava dirigendo verso l’altro postale – il Bengasi – partito da Civitavecchia che sarebbe giunto dopo poche ore a Golfo Aranci.
Il panico dilagò ovunque specie tra i militari che furono i primi a lanciarsi verso le scialuppe.
Tutto il personale di macchina, addetto alle manovre delle imbarcazioni di salvataggio, era perito. Il rimanente dell’equipaggio si adoperò per lanciare zattere e imbarcazione ma fu tutto inutile. Impazziti dalla paura la gente saliva sulle imbarcazioni per poi o rovesciarsi in mare o tagliare i cavi e cadere in acque annegando.
“L’imbarcazione più vicina era già piena e per fare più presto gli occupanti tagliarono le cime che la tenevano ai paranchi”: questa la testimonianza di Enrico Corte, sopravvissuto.
“Sul piroscafo c’era una zattera su cui presi posto con una quarantina di persone tra cui due donne, due carabinieri, un borghese e soldati. La zattera si trovò a galleggiare quando la nave andò a picco… per tutto il tempo che rimasi sul Tripoli dopo il siluramento non vidi mai il comandante e posso assicurare che nessun ordine fu dato”: Giovanni Fancellu, carabiniere sopravvissuto.
“Fui sbattuto a terra dall’esplosione. Mi recai subito in plancia dove trovai il capitano che mi disse: “Lei che vuole, chi l’ha chiamata, se ne vada”. Vidi subito dopo il capitano salire su una imbarcazione di sinistra già piena quasi tutti personale di bordo. Si ruppe subito dopo il tirante di poppa e l’imbarcazione si rovesciò lanciando tutti il mare” nocchiero di 1a classe Vincenzo Onorato.
Sono solo tre testimonianze delle moltissime sufficienti a far comprendere lo stato delle cose su quel relitto di piroscafo che galleggiò per ben quattro ore. Lasciando moltissimi naufraghi a mollo fino alle prime luci del giorno quando il Bengasi diretto a Golfo Aranci non passò loro a fianco di un paio di cento metri senza vederli. Comandante, equipaggio e passeggeri erano talmente tesi che neppure si accorsero di quei naufraghi che chiedevano aiuto. Tutti erano ancora sotto shock per l’attacco subito dall’U-boat da cui erano riusciti a sganciarsi.
Il marconista del Tripoli Carlo Garzia, che perse la vita per non voler lasciare la cabina radio (insignito di medaglia d’argento alla memoria.) riesce solo alle 24.22, dopo aver connesso batterie di emergenza alla radio, a lanciare l’SOS con la posizione. Il messaggio viene raccolto dalla stazione della Maddalena e dal Mafalda all’ormeggio. Le richieste di aiuto proseguono fino alle 02.05 quando il Tripoli sollevata la prua in alto inizia ad inabissarsi.
Pochi sono ancora a bordo.
Angelino Annedda, vicebrigadiere dei Carabinieri, sta aiutando due donne mezze assiderate. Scende da basso ma non risalirà. Federico Piattelani, 2° capocannoniera, si prestò ad aiutare chiunque mettendo a mare le zattere. Rimase ben oltre l’ultimo minuto. Come Agostino Granara mentre Giovanni Cirrone non lasciò mai il suo cannone. Tutti riceveranno una medaglia per il loro coraggio
Il Tripoli scivola veloce verso il fondo. Tutto è finito, rottami galleggiano ovunque, le grida di aiuto si spargono nel buio.
Il Comando Marittimo della Maddalena, ricevuto l’SOS ordina al Mafalda di riprendere il mare dal suo ancoraggio di Golfo Aranci. Anche il cacciatorpediniere Fulmine dovrebbe partire ma ha le macchine spente per un recente danno alle caldaie e lascerà le banchine solo alle 5.30. Anche la vedetta Liscara è allertata ma appena fuori deve rientrare per il mare grosso.
Sono le tre e mezza quando il Mafalda giunge sul luogo del naufragio. Si calano scialuppe, biscagline, reti. Dopo due ore solo 35 naufraghi sono in salvo a bordo.
Da sud ovest si possono osservare fiammate di cannoni. Il comandante convinto che i colpi fossero diretti alla sua nave molla tutto e dirige la sua nave in direzione delle fiammate e del Bengasi in arrivo sulla rotta opposta. Lasciando una marea di disgraziati a perire tra le onde.
Il Bengasi diretto a Golfo Aranci nulla sapeva del naufragio né della presenza del sommergibile. Se lo trovò davanti all’improvviso. Una vedetta aveva avvistato la scia del siluro. Capitan Barbero diede l’ordine di accostare a tutto a dritta e con una perfetta manovra riuscì a schivare il siluro. Immediatamente il cannone di prua si mise in funzione con colpi molto precisi mentre il Bengasi ripeteva l’accostata per scansare un secondo siluro. I colpi sparati dal Bengasi erano così precisi che l’U-boot desistette da ulteriori attacchi.
Finita la sparatoria trasmette quanto è accaduto: sono le 6.20; tre miglia da Tavolara.
Alle 6.30 il Mafalda dirige verso il proprio porto; riparte nuovamente su ordine preciso alle nove e mezza ma quando giunge due ore dopo sul punto del naufragio non trova che mare con onde lunghe.
Alle 12.30 si avvista un scia. Giovanni Citroni, capo-pezzo di poppa avvista chiaramente il sommergibile al quale lancia cinque cannonate. Sembravano con esito positivo.
La tragedia si è compiuta. Tra molte incomprensioni e incapacità, ordini errati, pressapochismo e cecità militare.
Pensare che i sommergibili tedeschi non attaccassero il postali per la semplice ragione che portavano la posta ai prigionieri austro-tedeschi reclusi all’Asinara era la capacità di non capire il nemico. Incattivito oltremodo con l’Italia per aver lasciato l’alleanza con loro per passare in pochi giorni con i nemici giurati: Francia e Inghilterra.
E ritenere che i possedimenti privati del ministro della Marina tedesca Herr Tirpiz ad Alghero fossero un deterrente per non far navigare nelle acque dell’isola i suoi U-boat era pura ed altrettanta follia.
Impedire ai traghetti, spesso carichi di saldati, di non superare i 10 nodi, per risparmiare carbone era altrettanto folle. Non dare protezione armata se non scalcinati mercantili con qualche cannone, non in grado di reggere mare mosso, era pressapochismo.
Il comandate del Mafalda per aver abbandonato i naufraghi fu deferito al Tribunale militare. Fu assolto.
La guerra sarebbe continuato così a lungo e tragicamente da far dimenticare quanto accadde al piccolo postale Tripoli.