La flotta giapponese – quasi completamente di supporto e non da guerra – all’ancora nella laguna di Truk, – oggi Chuuk – base strategica giapponese, fu affondata da un raid aereo americano – operazione Hailstone – nel febbraio del 1944.
Il numero di navi andate a fondo varia tra le 40 e le 60, il numero non è preciso. La maggior parte sono cargo, supporto oltre a un sommergibile e varie bombardieri. Già nel 1971, data della prima ricerca effettuata da un fotografo italiano, ci si domandava quali sarebbero state le conseguenza della corrosione marina non tanto sui relitti navali – che si sarebbero disgregati e divenuti pericolosi – ma sulle centinaia di fusti di benzine e petroli contenuti nelle navi stesse. Per proteggere questo museo subacqueo, unico nel suo genere, il governo locale è intervento dichiarando la laguna Patrimonio Nazionale. L’azione corrosiva del mare però non può essere fermata anche se una particolare condizione morfologica dell’ambiente ha permesso alle navi di rimanere intatte fino ad oggi. Ma la questione principale è rimasta. Nel 2015 una piccola squadra di ingegneri specializzati nella corrosione petrolifera della città australiana di Perth si sono recati in loco ed hanno esaminato i relitti e prelevato campioni i cui risultati sono stati resi pubblici di recente.
Ian MacLeod, un elettrochimico australiano conosciuto a livello internazionale per la sua esperienza nella ricerca e nella conservazione dei naufragi si è messo a disposizione del gruppo. Il nostro progetto era quello di fare un documentario sul suo lavoro nella conservazione del naufragio.
MacLeod è stato coinvolto in due spedizioni a Truk Lagoon, nel 2002 e nel 2007. Il suo interesse riguarda la minaccia di inquinamento da petrolio. Queste navi erano cariche di combustibili durante la guerra e il volume sconosciuto di olio rimane nel tempo. Poiché l’acciaio corrode sotto l’azione dell’acqua di mare, la perdita di contenimento è inevitabile. Uno studio presentato alla International Oil Spill Conference ha stimato che tra i 757 e i 6 miliardi di galloni di prodotti petroliferi potrebbero ancora essere contenuti nei naufragi in tutto il mondo. Nel corso degli anni, MacLeod ha esaminato decine di naufragi per sviluppare un modello di corrosione che possa essere utilizzato per prevedere i tassi di degradazione. Ciò aiuta a quantificare quando si può verificare la perdita del contenuto – nonché l’insufficienza strutturale che potenzialmente pregiudica la sicurezza dei subacquei – e può essere utilizzata per giustificare la tempistica dei programmi di bonifica. MacLeod non poteva più immergersi a causa di problemi di salute, così il gruppo di ingegneri si è adoperato per recuperare le prove.
Una missione sui relitti di Truk
Sono stati esaminati 12 relitti. Il processo prevedeva la registrazione del pH, della tensione, della profondità, della temperatura, della salinità dell’acqua e dello spessore della concrezione di crescita marina (uno strato duro formato dalla calcificazione della crescita marina). Le letture sono state prese lungo la lunghezza e la profondità di ogni nave. Confrontando le nostre immagini con fotografie provenienti da spedizioni precedenti, il degrado dei relitti poco profondi è evidente a occhio nudo. Deformati dalla corrosione, le sovrastrutture sono crollate in un tifone di 2014. Il ponte della Fujikawa Maru è ora un mucchio di rottami; l’accesso al celebre compressore “R2-D2” nella sua sala macchine, pur rimanendo possibile, è potenzialmente molto più pericoloso.
La missione di Chris e Aalison Selman tentava di confermare anche la quantità di l’olio che questa e altre navi stanno perdendo.
Subacquei volontari hanno dato una mano nella ricerca e qualcuno ha individuato che dalla Shinkoku Maru, una petroliera, uscivano idrocarburi di cui si sentiva benissimo l’odore nell’aria. Un deposito di olio è stato individuato nella sala macchine e se n’è potuto ottenere volato, con il permesso del governo locale in Australia per gli esami.
Si possono salvare?
In primo luogo, una soluzione collaudata è quella di rallentare la corrosione installando un sistema di protezione catodica. Se un anodo (un blocco di un metallo attivo come alluminio o zinco) è collegato al relitto, il metallo attivo corrode e fornisce elettroni sufficienti per soddisfare la domanda dall’ossigeno disciolto nell’acqua di mare, in modo che l’acciaio non perda più gli elettroni e quindi corroda.
Questa tecnica, scoperta nel 1824, è ancora in uso diffuso su navi, strutture marine e nell’industria del petrolio e del gas. In teoria, gli innumerevoli relitti militari ancora sparsi a terra sule isole potrebbe avere questa funzione se immersi e collegati ai relitti. Una soluzione pratica attuata altrove ma che – diciamo noi – inattuabile a Chuuk. Il campione di petrolio è stato analizzato e si è scoperto mancante della catena di idrocarburi pesanti: il campione contiene anche batteri vivi. La teoria afferma che questo campione di batteri vivi – sequenziato e testato dal DNA – potrebbe essere in grado di abbattere le catene di idrocarburi pesanti. Se i test dovessero confermare che i batteri sono in grado di abbattere le catene di idrocarburi pesanti, questa potrebbe essere una potenziale soluzione di bio remediazione che può essere applicata a qualsiasi naufragio in tutto il mondo. Due soluzioni molto complesse da applicare, confermate anche dagli autori della spedizione i coniugi Selman. Servirebbero denaro e interessi specifici. Due cose difficili da mettere assieme in un luogo così lontano e sperduto.
Malgrado tutto, grazie a condizioni ambientali particolari ed uniche, questa flotta navale con il suo carico è rimasta in buona parte integra, un vero museo sottomarino, unico nel suo genere. Che in altre parti del Pianeta tentano in qualche modo di costruire. Sicuramente il tempo continuerà a svolgere il proprio lavoro di demolizione ma ci sarà ancora sufficiente tempo per visitare la Laguna più celebre al mondo.